Io sono ARCHIMEDE e questa è la mia casa
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Io sono Archimede

A meno di due secoli dalla morte di Archimede, Cicerone ne lamentava la dimenticanza da parte della città natale Siracusa, che vantava un passato glorioso, e si premurava di valorizzare la tomba inconsapevole che i secoli successivi lo avrebbero in parte smentito sul ritrovamento e avrebbero condannato la città e il cittadino più geniale alla sorte comune dell’oblio.

Filmmaker: Piero Sabatino

Solo una cortesia, prima di varcare la soglia: abbandonate gli aneddoti che avete sentito su di me, e le dicerie di chi ha voluto separare il genio dall’uomo dopo la mia morte.

Io sono Archimede e basta.
L’unico uomo legato per l’eternità a Siracusa e alla Sicilia tutta.
Ero un uomo come voi, solo con più curiosità e fantasie.
Uno che usava più zone del cervello. Càpita. Nei secoli ogni tanto càpita.
Ma entrate, e scoprirete la verità.

Ovviamente il mio nome, come sapete, o come dovreste sapere, è strettamente abbinato a una quarantina almeno di invenzioni o scoperte più o meno grandi.
Qui nella mia casa ne troverete molte, e tutto ciò che mi riguarda. Dal Museo che mi è stato dedicato, e che in parte condivido con un genio italiano che ha avuto la bontà di studiarmi a fondo, Leonardo da Vinci, fino ai miei lavori più celebri. Dai piccoli istanti della mia vita terrena, alle applicazioni pratiche dei miei princìpi geometrici e matematici.

Io studiavo e in parte scrivevo su tavolette simili ai vostri odierni tablet, anche se al posto dello schermo avevo uno strato di cera. Ma usavo anche sofisticati e costosi (per il mio tempo) fogli ricavati dalla pianta del papiro. Alcune cose che ho scritto sono state faticosamente ritrovate dopo salvataggi a dir poco incredibili di cui qui si dice. Altre sono andate perse per sempre.
Quel che oggi è rimasto è però pur sempre abbastanza, non trovate?

Dicono che ero secoli avanti. Sì, indubbiamente lo ero. Ma non è merito mio, sono nato così.

La mia Siracusa

Urbem Syracusas maximam esse Graecarum, pulcherrimam omnium saepe audistis. Est, iudices, ita ut dicitur..” 

“Avete spesso sentito dire che Siracusa è la più grande città greca, e la più bella di tutte. Signori giudici, è proprio come dicono…”

Vado molto fiero della mia città. Senza presunzione posso dire che per secoli fu tra le metropoli più importanti del mondo antico.

Dice la nostra leggenda che fu fondata da gruppo di Corinzi sbarcati qui fra il 735 e il 734 a.C. Li guidava Archia. Un Bacchiade, nientemeno che un discendente dell’eroe Eracle. Si insediarono in quel di Ortigia e la scelta fu felice, strategica per la posizione geografica al centro del Mediterraneo, e quindi degli scambi commerciali, ma anche per la natura propizia. Doppio porto, sicuro. Abbondanza di acqua. Territorio facilmente difendibile. La crescita della città fu rapida e tumultuosa. Dopo Ortigia sorsero le residenziali Akradina e Tyche, Neapolis ricca di edifici monumentali, e per ultima Epipoli, la zona più alta, a difesa.

Certo questo sviluppo fu segnato da guerre sanguinose e faide interne, capovolgimenti repentini che portarono dall’istaurazione della tirannide alla repubblica. Ma tutto ciò non diminuì la bellezza della mia città. Templi, teatri, piazze e magnifici edifici pubblici la adornavano. Penso al Tempio di Apollo, edificato nel VI secolo. O a quello di Atena del 480 a.C., poi nei secoli trasformato in quel che voi oggi conoscete come il duomo. Ricordo con orgoglio le possenti mura che la cingevano, lunghe più di venti chilometri: palcoscenico perfetto per le mie macchine da guerra. Ricordo I Persiani di Eschilo nel teatro appena restaurato della Neapolis, costruito ai tempi dei tragici sulle pendici sud del colle Temenite. E la storia di Aretusa, la ninfa tramutata in fonte d’acqua da Artemide, talmente legata a questi luoghi che l’aggettivo “aretuseo” è onomastico della mia città. Insomma, quando nacqui Siracusa era già da qualche secolo uno dei centri più belli e fiorenti di quella che voi chiamate “civiltà classica”. Persino Platone il filosofo aveva viaggiato fin qui, per ben tre volte, tra il 388 e il 360 a.C., convinto di poter mettere in pratica le sue idee politiche. Illuso! Si scontrò non tanto con la normale diffidenza del tiranno, Dionisio I, quanto con la riluttanza di tutta la società siracusana. Non ci serve nulla, grazie! gli risposero. Perché darsi pena? Godevamo di un indubitabile benessere. E più che in filosofia i miei concittadini eccellevano nella pittura, nella ceramica, nella produzione di raffinatissimi gioielli, e financo nell’arte enogastronomica.

Il fasto della corte siracusana, le sue ricchezze, la voglia di espandersi che ahimè sempre afferra i comuni mortali, più di una volta la portarono ad affrontare nemici pericolosi. Cartagine, concorrente per il controllo della Sicilia durante le guerre greco-puniche. Atene, rivale per il dominio del Mediterraneo durante le guerre del Peloponneso, sconfitta duramente nel 413 a.C.

Alla mia nascita, nel 287 a.C., re Agatocle era morto da appena due anni. La città regnava su più di metà della Sicilia. Era senz’altro il più importante polo culturale del Mediterraneo insieme ad Alessandria d’Egitto, al centro di dense relazioni scientifiche, politiche, economiche. E poi nel 270 salì sul trono un grande sovrano: Gerone II. Lo conoscevo bene; fu mio caro amico. Sotto il suo regno trascorse quasi tutta la mia vita e la mia attività. Gerone non solo si dedicò alla riorganizzazione amministrativa, economica e culturale del regno, ma cercò con tutte le sue forze di metterlo al riparo dallo scontro ormai incombente tra Roma e Cartagine, che rischiava di coinvolgerci. Fu sua l’intuizione di cambiare cavallo, durante Prima guerra punica del 264, e di allearsi con i Romani abbandonando i Cartaginesi. Mossa vincente, che garantì a Siracusa un lungo periodo di prosperità e di pace. Non lo ringrazierò mai abbastanza. In queste condizioni io potei studiare ad Alessandria con Eratostene e gli altri, dedicarmi alla scienza, e pure a progetti incredibili come la costruzione della Syrakosia, la più grande nave dell’antichità. Che anni splendidi furono. Sembrava che Siracusa non dovesse mai conoscere il declino.

Ma le cose andarono diversamente. Nel 216 morì il principe ereditario Gelone; il re si spense l’anno seguente alla veneranda età di 90 anni, e tutto ciò che aveva faticosamente costruito si sgretolò in un batter d’occhio. Salì al trono il nipote Geronimo, un ragazzo imberbe che aveva scambiato l’accortezza del nonno con l’ambizione. Pessimo baratto.

Ruppe l’alleanza coi romani. Prese in giro gli ambasciatori chiedendo notizie della loro disfatta a Canne. Si alleò con Annibale, sognando di prendersi la Sicilia. E il senato romano non la prese bene, come c’era da aspettarsi. Ci spedì subito un esercito contro, al comando del console Marco Claudio Marcello. Io sentivo che andavamo incontro alla catastrofe, ma feci di tutto per difendere la mia terra. L’assedio fu lungo, fra alti e bassi, e a un certo punto sembrò che i miei sforzi e le mie invenzioni che spaventavano quegli zotici dei romani potessero evitare la sconfitta. Ma quelli catturarono un nostro ambasciatore che avevamo mandato a chiedere aiuto al re di Macedonia, Filippo, organizzarono uno scambio di prigionieri, e con questa astuzia presero le misure delle nostre mura. Così una notte, correva l’anno 212, approfittando dei festeggiamenti per Artemide che duravano ormai da tre giorni, riuscirono a scavalcarle e a sorprenderci. Fu la fine della Siracusa che conoscevo. E anche la mia.

Vado molto fiero della mia città. Senza presunzione posso dire che per secoli fu tra le metropoli più importanti del mondo antico.

Dice la nostra leggenda che fu fondata da gruppo di Corinzi sbarcati qui fra il 735 e il 734 a.C. Li guidava Archia. Un Bacchiade, nientemeno che un discendente dell’eroe Eracle. Si insediarono in quel di Ortigia e la scelta fu felice, strategica per la posizione geografica al centro del Mediterraneo, e quindi degli scambi commerciali, ma anche per la natura propizia. Doppio porto, sicuro. Abbondanza di acqua. Territorio facilmente difendibile. La crescita della città fu rapida e tumultuosa. Dopo Ortigia sorsero le residenziali Akradina e Tyche, Neapolis ricca di edifici monumentali, e per ultima Epipoli, la zona più alta, a difesa.

Certo questo sviluppo fu segnato da guerre sanguinose e faide interne, capovolgimenti repentini che portarono dall’istaurazione della tirannide alla repubblica. Ma tutto ciò non diminuì la bellezza della mia città. Templi, teatri, piazze e magnifici edifici pubblici la adornavano. Penso al Tempio di Apollo, edificato nel VI secolo. O a quello di Atena del 480 a.C., poi nei secoli trasformato in quel che voi oggi conoscete come il duomo. Ricordo con orgoglio le possenti mura che la cingevano, lunghe più di venti chilometri: palcoscenico perfetto per le mie macchine da guerra. Ricordo I Persiani di Eschilo nel teatro appena restaurato della Neapolis, costruito ai tempi dei tragici sulle pendici sud del colle Temenite. E la storia di Aretusa, la ninfa tramutata in fonte d’acqua da Artemide, talmente legata a questi luoghi che l’aggettivo “aretuseo” è onomastico della mia città. Insomma, quando nacqui Siracusa era già da qualche secolo uno dei centri più belli e fiorenti di quella che voi chiamate “civiltà classica”. Persino Platone il filosofo aveva viaggiato fin qui, per ben tre volte, tra il 388 e il 360 a.C., convinto di poter mettere in pratica le sue idee politiche. Illuso! Si scontrò non tanto con la normale diffidenza del tiranno, Dionisio I, quanto con la riluttanza di tutta la società siracusana. Non ci serve nulla, grazie! gli risposero. Perché darsi pena? Godevamo di un indubitabile benessere. E più che in filosofia i miei concittadini eccellevano nella pittura, nella ceramica, nella produzione di raffinatissimi gioielli, e financo nell’arte enogastronomica.

Il fasto della corte siracusana, le sue ricchezze, la voglia di espandersi che ahimè sempre afferra i comuni mortali, più di una volta la portarono ad affrontare nemici pericolosi. Cartagine, concorrente per il controllo della Sicilia durante le guerre greco-puniche. Atene, rivale per il dominio del Mediterraneo durante le guerre del Peloponneso, sconfitta duramente nel 413 a.C.

Alla mia nascita, nel 287 a.C., re Agatocle era morto da appena due anni. La città regnava su più di metà della Sicilia. Era senz’altro il più importante polo culturale del Mediterraneo insieme ad Alessandria d’Egitto, al centro di dense relazioni scientifiche, politiche, economiche. E poi nel 270 salì sul trono un grande sovrano: Gerone II. Lo conoscevo bene; fu mio caro amico. Sotto il suo regno trascorse quasi tutta la mia vita e la mia attività. Gerone non solo si dedicò alla riorganizzazione amministrativa, economica e culturale del regno, ma cercò con tutte le sue forze di metterlo al riparo dallo scontro ormai incombente tra Roma e Cartagine, che rischiava di coinvolgerci. Fu sua l’intuizione di cambiare cavallo, durante Prima guerra punica del 264, e di allearsi con i Romani abbandonando i Cartaginesi. Mossa vincente, che garantì a Siracusa un lungo periodo di prosperità e di pace. Non lo ringrazierò mai abbastanza. In queste condizioni io potei studiare ad Alessandria con Eratostene e gli altri, dedicarmi alla scienza, e pure a progetti incredibili come la costruzione della Syrakosia, la più grande nave dell’antichità. Che anni splendidi furono. Sembrava che Siracusa non dovesse mai conoscere il declino.

Ma le cose andarono diversamente. Nel 216 morì il principe ereditario Gelone; il re si spense l’anno seguente alla veneranda età di 90 anni, e tutto ciò che aveva faticosamente costruito si sgretolò in un batter d’occhio. Salì al trono il nipote Geronimo, un ragazzo imberbe che aveva scambiato l’accortezza del nonno con l’ambizione. Pessimo baratto.

Ruppe l’alleanza coi romani. Prese in giro gli ambasciatori chiedendo notizie della loro disfatta a Canne. Si alleò con Annibale, sognando di prendersi la Sicilia. E il senato romano non la prese bene, come c’era da aspettarsi. Ci spedì subito un esercito contro, al comando del console Marco Claudio Marcello. Io sentivo che andavamo incontro alla catastrofe, ma feci di tutto per difendere la mia terra. L’assedio fu lungo, fra alti e bassi, e a un certo punto sembrò che i miei sforzi e le mie invenzioni che spaventavano quegli zotici dei romani potessero evitare la sconfitta. Ma quelli catturarono un nostro ambasciatore che avevamo mandato a chiedere aiuto al re di Macedonia, Filippo, organizzarono uno scambio di prigionieri, e con questa astuzia presero le misure delle nostre mura. Così una notte, correva l’anno 212, approfittando dei festeggiamenti per Artemide che duravano ormai da tre giorni, riuscirono a scavalcarle e a sorprenderci. Fu la fine della Siracusa che conoscevo. E anche la mia.

La mia eredità

Come arrivarono i miei studi ai posteri? Quali strade tortuose seguirono?

La storia che sto per raccontarvi per sommi capi coinvolge grandi artisti e grandi scienziati, avventurieri e truffatori, e i suoi contorni più di una volta sono avvolti dal mistero. Seguitemi e non ve ne pentirete.

Con la caduta dell’Impero Romano, una coltre di silenzio calò sule mia vita e sulle mie opere. A eccezione di un esiguo numero di eruditi bizantini, come il celebre Leone Matematico cui non finirò mai di essere debitore, e di qualche volenteroso matematico arabo, penso ai tre fratelli Muhammad, Ahamad e al-Hasan (noti come i Banu Musa).

Così fino al XIII secolo l’Occidente latino conosceva relativamente poco di quel che ero stato e di quello che avevo fatto. Persino il mio nome si stemperava nell’oblio: le fonti lo storpiano in forme derivate dall’arabo, quali “Ersemides” o “Arsamithes”.

Ma la storia, si sa, vive anche di stravolgimenti epocali. Proprio a uno di questi dovete la riscoperta del sottoscritto in Europa: la conquista e il saccheggio di Costantinopoli.

Nell’aprile del 1204 i crociati diretti in Terrasanta per liberare Gerusalemme si fermarono lungo il cammino a far razzia nella capitale dell’Impero bizantino. I suoi abitanti si consideravano gli unici depositari della romanità classica e la città conservava i più importanti tesori letterari del mondo antico, molti dei quali provenienti dall’antica Biblioteca di Alessandria d’Egitto. Fra questi c’erano alcuni miei scritti.

A differenza delle centinaia di migliaia di volumi che andarono distrutti, tre libri contenenti alcuni dei miei testi sopravvissero miracolosamente alla devastazione, probabilmente trafugati: quelli che nel seguito furono chiamati, con poca fantasia, i Codici A, B e C.

Di questi tre libri, redatti con molta probabilità tra il IX e X secolo, pare proprio su impulso di Leone Matematico, il primo, il cosiddetto Codice B, fu avvistato per l’ultima volta nel 1311 nella Biblioteca Pontificia di Viterbo. Poi fu il turno del Codice A, che nel 1564, prima di far perdere le proprie tracce, risultava ancora conservato a Venezia. Fu grazie a copie di questi due manoscritti e alla loro trascrizione che i maestri del Rinascimento, come il caro Leonardo da Vinci che è qui mio ospite fisso, ebbero la possibilità di studiare parte del mio lavoro.

In definitiva alla fine degli anni ’60 del XIII secolo, tutte le mie opere che potete leggere erano disponibili in lingua latina, tranne l’Arenario e il Metodo.

Nulla si sapeva del terzo libro, il famoso Codice C, oggi conosciuto proprio come il “Palinsesto di Archimede”, manoscritto dalle rocambolesche vicende di cui parlerò tra poco.

Tornando ai Codici A e B, arrivati in Occidente non si sa bene come, nel 1269 fu il cappellano fiammingo Guglielmo di Moerbeke, un domenicano che risiedeva presso la corte papale di Viterbo, ad eseguirne la traduzione latina. Ringrazio Guglielmo del suo certosino lavoro, di fondamentale importanza per la successiva diffusione dei miei studi e delle mie invenzioni che così almeno in parte giunsero ad alcuni degli uomini di maggior talento dell’Umanesimo e del Rinascimento, risvegliando un nuovo interesse per le mie opere. Intorno alla metà del secolo XV papa Nicolò V, l’umanista Tommaso Parentucelli, creatore della Biblioteca Vaticana, commissionò a Jacopo da San Cassiano (noto anche come Iacobus Cremonensis) una traduzione del Codice A prima della sua scomparsa definitiva. Questa copia a sua volta fu trascritta niente di meno che dal grande Piero della Francesca, e probabilmente passò anche nelle mani di Leonardo. Il velo che avvolgeva il mitico Archimede era definitivamente squarciato. L’avvento della stampa fece il resto. I miei lavori cominciarono a circolare in tutta Europa, alimentando e ispirando scienziati del calibro di Galileo Galilei e Isaac Newton. Ma questa è un’altra storia.

Il Codice C: il Palinsesto di Archimede

Merita un capitolo a parte il famoso Codice C. Ricostruirne almeno in parte la storia è un viaggio affascinante attraverso i secoli. Partirò dall’epilogo.

Giovedì 29 ottobre 1998: nella prestigiosa sede di Christie’s di New York è battuto all’asta il Codice C, 174 folii pergamenacei in cui sono trascritte alcune delle mie opere. Considerato il pessimo stato di conservazione in cui versava, mai avrei pensato che potesse essere acquistato per l’incredibile cifra 2 milioni di dollari (più 200.000 di diritti d’asta) da un mercante di libri londinese che agiva per conto di un ignoto cliente.

Quel Codice però è prezioso sul serio. È infatti l’unico che riporti due testi di straordinario valore, di cui vado molto fiero: il Metodo e lo Stomachion.

Da lì a poco il misterioso acquirente avrebbe affidato il Codice C alle cure di William Noel, responsabile della sezione libri antichi del Walters Art Museum di Baltimora, proponendogli di occuparsi dello studio del libro a condizione di sostenerne i costi.

Finiva così l’avvincente storia del prezioso Palinsesto che nei suoi undici secoli di vita aveva toccato tre continenti, e cominciava un’appassionante indagine scientifica che nel corso degli ultimi 20 anni avrebbe visto cooperare paleografi, restauratori, analisti, informatici e fisici, filologi e storici della matematica.

Non potete godervi la storia, però, se non sapete che cos’è e come è fatto un palinsesto. Dal latino palimpsestus, parola mutuata dal greco παλίμψηστος che significa “raschiato di nuovo”. Nel Medioevo, visto l’enorme costo della pergamena che a quei tempi, è bene ricordarlo, era un supporto scrittorio privilegiato, era pratica abbastanza comune riutilizzare i fogli scritti, eliminando il testo originario non ritenuto più d’interesse mediante lavaggio e raschiatura, per poi sostituirlo con altro disposto nello stesso senso (in genere nelle interlinee del primo), o in senso trasversale al primo.

Anche il Codice C aveva subito questo trattamento. Il monaco amanuense Johannes Myronasche nel 1229 aveva – mi sento male solo a pensarci – cancellato il mio testo, per sostituirlo con trascrizioni di preghiere ed esorcismi.

A questo punto è utile riavvolgere ulteriormente il nastro e seguire le tracce del Codice C dalla sua scomparsa nel 1204 al ritrovamento, da Costantinopoli fino a Baltimora, dov’è arrivato dopo mille peripezie.

Come A e B, si salvò miracolosamente dal saccheggio della capitale bizantina di cui ho detto. Da qui il manoscritto fu portato a Gerusalemme e appunto trasformato senza pietà in libro di preghiere. Da lì arrivò più avanti nel monastero di San Saba nel deserto della Giudea, dove rimase non si sa per quanto tempo.

Nel 1846 il Codice riapparve misteriosamente nella Biblioteca del Santo Sepolcro di Costantinopoli: il Metochion. In quell’anno il filologo Konstantin von Tischendorf lo rinvenne e lo riconobbe come un’opera matematica greca. Ma non capì che si trattava di me. Si limitò ad asportarne un foglio portandolo con sé a Cambridge, dove si trova ancora oggi. Chi si accorse invece del prezioso contenuto fu il professor Heiberg di Copenaghen, che nel 1906 riuscì ad individuare, nel testo eraso e sovrascritto del palinsesto, il dialetto dorico che parlavo io.

Ma le peripezie del Codice C non erano ancora finite. Dall’Asia Minore si passa in Europa. A causa delle turbolenze che caratterizzarono la Turchia alla fine del primo conflitto mondiale, molti manoscritti furono trasferiti dal Metochion di Costantinopoli alla biblioteca nazionale di Atene. Il Codice C non giunse mai nella capitale greca. Scomparve, forse rubato e venduto, per riapparire negli anni ‘30 a Parigi, nelle mani di del celebre antiquario ebreo, Samuel Guerson, che l’aveva acquistato dall’armeno Dikran Kelekian, uno dei più famosi commercianti d’arte del XX secolo. Quando nel 1940 i nazisti entrarono a Parigi, Guerson si trovò in difficoltà e tentò di fuggire. I suoi beni gli erano già stati sequestrati, gli era rimasto solo il Palinsesto. Propose quindi al suo amico Marie Louis Sirieix di acquistarlo, e per convincerlo del valore del manoscritto realizzò alcune false miniature raffiguranti immagini sacre. Sirieix comprò il libro e Guerson riuscì a fuggire. Con ogni probabilità il manoscritto restò nascosto in una cantina umida per decenni fino a quando Anne Sirieix, figlia di Marie Louis, tentò di farlo restaurare provocando ulteriori danni. Si arriva così ai vostri tempi, e all’asta di New York.

Io e Leonardo

La gente chiama genii le persone come me, che vedono nella trama infinita delle cose le regolarità e le associazioni che a loro sfuggono, che le rivelano in linguaggi complicati, che le usano e le trasformano in strumenti per addomesticare, almeno in parte, la natura. Queste doti rare, per cui possiamo ringraziare gli dèi, sono una proprietà che supera i confini spaziali e temporali, creando un fitto reticolo di relazioni, nessi e legami tra persone vissute in epoche e luoghi molto distanti.

Una di queste parentele è sicuramente quella che mi lega a Leonardo da Vinci, attraversando ben 17 secoli. Leonardo mi degnò della sua più profonda ammirazione, e io ebbi l’onore di ispirare in lui molti dei suoi studi e delle sue creazioni.

Cosa ci unisce? Entrambi abbiamo incarnato, in un modo molto simile, l’aspirazione alla conoscenza del reale attraverso la ragione e l’esperienza. Gli uomini riconoscono che nella nostra creatività e insaziabile curiosità abbiamo espresso qualcosa di universale: il profondo desiderio di superare i propri limiti attraverso l’osservazione e la sperimentazione.

La fantasia dei posteri è stata molto colpita dalle mie gesta, se sono nate tutte quelle leggende intorno a me come sapiente che sbalordiva concittadini e avversari con una sorta di scienza-spettacolo. Ma a Leonardo questo non sarebbe bastato. Il vero fascino deve essere stato per lui la corrispondenza tra scienza e tecnica, tra la teoria e le sue applicazioni pratiche, che io avevo dimostrato unendo la scienza del matematico puro alla professione di meccanico e inventore di macchine prodigiose. I continui e molteplici riferimenti a me che si trovano negli scritti, nei disegni e negli studi di Leonardo dànno l’idea di un allievo che studia i testi del maestro nella speranza, non sempre esaudita, di coglierne i segreti e riprodurli.

Dev’essere perché Leonardo cercava di togliersi di dosso l’etichetta di “artigiano” che aveva ricevuto formandosi nella bottega del Verrocchio. Invece lui voleva essere riconosciuto come scienziato. L’ispirazione ai modelli classici dava prestigio culturale alla sua impresa, come nel mondo dell’arte i modelli del passato erano diventati l’archetipo di riferimento. A partire dall’Umanesimo, e poi nel Rinascimento, c’era stato un potente risveglio dell’interesse per la scienza del mio tempo, il periodo ellenistico (IV-I secolo a.C.). Come alcuni prima di lui, e molti altri dopo di lui, Leonardo desiderò di riappropriarsi di conoscenze già presenti in testi scientifici antichi trascritti e tradotti dal greco, che proprio in quegli anni cominciano a girare copiosi in Italia. Forse, dico forse (e lo dice anche Lucio Russo) gli “intellettuali” rinascimentali non erano grado di comprendere fino in fondo la nostra scienza. A loro interessavano più che altro agli esiti pratici e concreti dei loro illustri predecessori (prospettiva, macchine pneumatiche, idraulica, anatomia, macchine da guerra). Ma il mio ambiente in verità era pieno di avanzati e raffinatissimi scienziati. Alessandria d’Egitto ne era il centro propulsore, dove si incontravano tutte le discipline ai massimi livelli. Qualcosa di simile al vostro MIT, un MIT ante litteram. Basti pensare al mio amico Eratostene, il primo matematico che riuscì a fornire una misura straordinariamente precisa del meridiano terrestre. Euclide e il suo metodo assiomatico che costruì tutta la geometria. Aristarco di Samo, ideatore dell’astronomia eliocentrica. Ipparco, l’anticipatore della trigonometria. Eravamo tutti protagonisti di una rivoluzione scientifica talmente ricca da far apparire gli uomini del Rinascimento interessati alla scienza come apprendisti un po’ confusi, quand’anche acuti e pieni di buone intenzioni.

Questo Museo, la mia casa in cui Leonardo è l’ospite prediletto, è il posto migliore per scavare nel legame tra noi. Il che è un ottimo modo per conoscere meglio entrambi.

 


Testo liberamente tratto da Leonardo e Archimede, incontro tra genii di Gastone Saletnich

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